Questo contributo è stato realizzato dal Professor Giovanni Siri, Vision maker e Strategic Advisor di Execo, esperto di processi di cultural change in tutte le sue declinazioni, generazione di vision e valori negli scenari e megatrend dei prossimi anni.


In questo nostro modo di stare al mondo ora colpisce la straordinaria propensione, amplificata dai social media e poi dai media in generale, a generare discussioni frenetiche e prolisse su termini di cui non ci preoccupiamo di chiarire il significato né tantomeno di accertarne le dimensioni misurando in qualche modo il presunto fenomeno sottostante.

Questa sorta di coazione a parlare a vanvera amplificando immediatamente la risonanza di temi nati talora del tutto a caso finisce per creare il caso al di là della realtà: come se le nuvole di parole prevalessero sistematicamente sulla fattualità dei fenomeni. Prendiamo ad esempio il caso molto attuale del “quiet quitting”.

In un lucido articolo comparso su Lavoce.info, Francesco Armillei puntualizza così lo stato delle cose: “Le interpretazioni date nel dibattito pubblico sono state le più diverse, ma in sostanza sono raggruppabili in due categorie: l’interpretazione della “normalità” e quella della “eccezionalità”. Secondo la prima, le grandi dimissioni sono state un fenomeno in linea con lo scenario macroeconomico positivo degli ultimi due anni, mentre secondo i sostenitori della seconda tesi, si tratta invece qualcosa di eccezionale, frutto del periodo straordinario che i lavoratori hanno vissuto durante la pandemia da Covid-19. Ma proprio sulla eccezionalità, o unicità, del fenomeno vi è stato un fraintendimento tra ciò che misuriamo e ciò che pensiamo esistere.

Il quiet quitting, nato nel momento in cui l’hashtag #quietquitting, lanciato su TikTok da Zaid Khan, un ingegnere newyorkese di vent’anni, ha raggiunto rapidamente alcuni milioni di visualizzazioni, lo si misura indirettamente tramite le survey di engagement che sfruttano un approccio qualitativo, intrinsecamente discutibile.

Morale della favola: le interpretazioni di questi fenomeni che cercano di saltare a conclusioni ampie e trasversali comportano il rischio di portarci lontano da dove queste cose poi accadono davvero, ovvero nelle organizzazioni che certamente stanno fronteggiando sfide inedite.”

Sempre sullo stesso sito, Gianni Rusconi invita ad uscire dalla vaghezza dei fondamenti di questa discussione offrendo almeno una definizione di ciò di cui si parla. A suo modo di cedere il quiet quitting “riflette la scelta di eseguire il minimo indispensabile nel rigoroso rispetto delle proprie mansioni e del proprio orario di lavoro.”

Da tendenza social il fenomeno ha così assunto le forme dell’antidoto per curare lo stress e il burnout da troppo lavoro “imponendo” un nuovo modello: fare lo stretto necessario, non dare troppa importanza ai problemi dell’ufficio ed eleggere a priorità un miglior equilibrio nella propria vita privata.

Appare evidente come il quiet quitting rappresenti un approccio per sua stessa natura contraddittorio poiché oscilla tra un’inquietante e per nulla inedita forma di “astensionismo” e di radicale de-responsabilizzazione da un lato e una comprensibile e, per certi versi, addirittura auspicabile propensione a un minor grado di coinvolgimento psicofisico, necessario per preservarsi dalle fatiche di una fase storica tutt’altro che semplice.”

A me pare un buon modo di ragionare, sottolineando però che il tema è nato da TikTok, e che allo stato attuale non potremmo decidere se si è gonfiato per contagio social o se ha offerto l’occasione di denunciare un reale fenomeno offrendo una etichetta suggestiva per identificarlo.

In assenza di dati solidi e metodologicamente attendibili, possiamo anche pensare che si tratti più di un interesse del social ad auto promuoversi, sfruttando la voglia di “esserci” dei suoi users (e quindi aumentando il proprio business) che non di una occasione per esprimere un reale disagio (qualcuno ha persino parlato di “melanconia” e depressione” alla radice di questo atteggiamento).

In ogni caso, un successo di marketing TiKTok lo ha di certo ottenuto, a dare retta a un recente articolo apparso sull’Huffington Post di cui riporto di seguito alcuni brani: “L’ultima tendenza del social network cinese si chiama #quittok e dilaga tra i giovani che filmano il proprio addio al posto di lavoro in tempo reale. La Bbc racconta che tutto è partito nel luglio del 2021, quando in Regno Unito ha iniziato a circolare una clip di alcuni lavoratori di una nota catena di fast food che avevano deciso di licenziarsi in massa a metà turno: tutto era stato pubblicato sulla piattaforma diventando virale con lo slogan everyone quit

Da quel momento, i video a tema si sono moltiplicati seguendo il medesimo copione: si vede il momento in cui viene consegnata la lettera di dimissioni al capo oppure viene comunicata la decisione in call. Tra le clip più visualizzate ci sono quelli di due Millennial. Nel suo “Quit my job with me”, Christina Zumbo, 31 anni, mostra le mani che tremano, l’ansia che precede l’invio della mail di licenziamento e le fasi che seguono il gesto, tra cui la videochiamata con il capo e il pianto finale. “Perché è così difficile?”, si legge nella didascalia, “va bene lasciare le cose che non ti rendono felice, probabilmente starai meglio che rimanendo nella bolla di comodità che ti impedisce di crescere. Questa è la mia vita e non voglio viverla come se la osservassi da lontano, senza aver voce in capitolo, voglio essere il personaggio principale”.

Il video della giovane donna ha fatto il giro del web, ricevendo 3.000 “mi piace” e quasi 3.000 commenti. “Non avevo idea che così tante persone avrebbero visto, raccontato e condiviso le proprie storie, o la loro paura di lasciare il loro attuale posto di lavoro, o il loro forte desiderio di fare quello che ho fatto io”, ha raccontato Zumbo alla Bbc.

Un’altra clip diventata virale è quella in cui la 20enne Maris Jo Mayes mostra il momento in cui chiama il suo capo per dirgli che ha deciso di licenziarsi, condividendo il sollievo che segue la telefonata con la colonna sonora di “Dog Days Are Over” di Florence & The Machine. “Avevo una bella busta paga, viaggiavo e lavoravo con alcuni dei più grandi nomi del settore, ma ero infelice”, ha detto la diretta interessata alla Bbc.

Intanto il trend continua a diffondersi: l’hashtag #quittok ha già raggiunto 38 milioni di visualizzazioni, mentre #quitmyjob è quasi a quota 360 milioni.

Il tema delle “persone al centro” sappiamo essere diventato strategico nelle organizzazioni produttive: e dunque sarebbe bene, se davvero è importante coltivare sistematicamente il benessere e il clima dentro la workplace, sapere di cosa esattamente parliamo. Ma sembra che invece di stabilire criteri e metodi di osservazione, ascolto, sperimentazione sistematica di modalità di gestione formativa e organizzativa, ci perdiamo in confusi allarmismi a suon di parole e di eccitazioni disordinate. Il che è pur sempre un sintomo, assai più grave peraltro del quiet quitting (ammesso che lo si possa considerare un sintomo reale). Perché potrebbe suggerire che stiamo preferendo rifugiarci compiaciuti nelle parole invece di affrontare i fatti (dopo aver valutato seriamente quali essi siano davvero).

Giovanni Siri