Questo contributo è stato realizzato dal Professor Giovanni Siri, Vision maker e Strategic Advisor di Execo, esperto di processi di cultural change in tutte le sue declinazioni, generazione di vision e valori negli scenari e megatrend dei prossimi anni.

Da qualche tempo avevo messo da parte la survey Randstad del 2022 sugli HR in Italia, e finalmente ho il tempo di condividerla e commentarla. Ha due pregi: di essere quali-quantitativa (con estensione non estesa ma selezionata dal loro) database, e di essere dedicata all’Italia. Mi interessava disporre di una metodologia un minimo attendibile per offrire commenti non solo su esperienze/sensazioni dirette o survey senza un minimo di campionamento sensato (entrambe e cose sono frequenti, come saprete bene, anche perché specialmente da noi latitano indagini sistematiche e ricorrenti sui temi in generale dello human side aziendale).

Rimandando gli interessati che non l’avessero già intercettata al questo link, passo alla selezione di dati cui mi sento di fare qualche commento sensato e (spero) stimolante per chi leggerà, considerandoli dei sintomi o sensori di nodi critici piuttosto che solo informazioni conoscitive

Senso e significato sono termini che hanno a che vedere con il sentirsi dentro un progetto personale coinvolgente. Fino a ieri questo tipo di vocabolario non sarebbe stato usato per parlare dell’ambiente di lavoro, perché “quelle cose lì” erano circoscritte alla sfera personale-privata che uno faceva il favore di lasciare fuori quando attraversava la soglia della workplace.

Oggi si rifiuta persino la dizione “work-life balance” perché la separazione dei due ambiti non è pensabile per le nuove generazioni (in particolare, ma per tutti). La necessità di una integrazione armonica vita-lavoro è una sfida cui la cultura organizzativa, erede di una netta separazione tra i due ambiti, non è assolutamente preparata.

Primo sintomo: la “copertina” del report:
“Il senso e il significato del lavoro”, che rimanda al grande tema ormai assai ricorrente in tema di cambiamento e di cultura organizzativa, del rapporto vita-lavoro. Senso e significato sono termini che hanno a che vedere con il sentirsi dentro un progetto personale coinvolgente. Fino a ieri questo tipo di vocabolario non sarebbe stato usato per parlare dell’ambiente di lavoro, perché “quelle cose lì” erano circoscritte alla sfera personale-privata che uno faceva il favore di lasciare fuori quando attraversava la soglia della workplace. Oggi si rifiuta persino la dizione “work-life balance” perché la separazione dei due ambiti non è pensabile per le nuove generazioni (in particolare, ma per tutti). La necessità di una integrazione armonica vita-lavoro è una sfida cui la cultura organizzativa, erede di una netta separazione tra i due ambiti, non è assolutamente preparata.
La presenza di un cuore in questa copertina è un altro sintomo interessante. Può significare molte cose, ovviamente (dovremmo chiedere a loro) ma di certo in questo contesto evoca la importanza della “passione” per il lavoro (il tema della passion at work è stato recentemente discusso come un criterio per la selezione). O anche può indicare metaforicamente il lato “umano”, il calore, la relazione, l’empatia, le soft skills: in ogni caso introduce anche qui un vocabolario aborrito dalla cultura fondativa della azienda. Che però oggi chiede di dedicare energie vitali, passione e attaccamento all’impresa, perché solo da questo tipo di energie può arrivare ciò di cui più avverte la necessità (engagement, resilienza, innovatività…)
C’è un terzo segnale/sintomo, che può essere letto in doppio modo. Trattasi dell “IO”. Che può essere il segnale di acceso-spento di un circuito elettrico (metafora della componente tecnica?) o anche un mascherato “Io” (il sé, me, le persone e la loro consapevolezza di sé) Nella prima ipotesi siamo a un tema classico (Tech&Human together) , nel secondo si tratterebbe di un rafforzamento del rilievo dato al “lato umano” già rappresentato con il cuore (razionalità, consapevolezza, ed emozione assieme).

Secondo sintomo: il capitolo “senso del lavoro e benessere”

Anche qui intanto è significativo il titolo di questa sezione, che non distingue ma lega i due termini (senso del lavoro e benessere) offrendo i dati (che vediamo subito) come risposta alle due cose congiuntamente. Se la sintassi ha un senso questa titolazione significa assumere per dato che si sta bene al lavoro quando questo ha un senso, un significato personale anche per me, un senso che va al di là di vendere il mio tempo e le mie competenze. Non so quanto questa identificazione sia davvero acquisita, ma di cero negli studiosi emerge con chiarezza che il making sense consente di accettare positivamente il lavoro, anche nei suoi aspetti meno immediatamente gratificanti.
– Venendo ai dati attraverso cui il report misura questo senso-benessere percepito in Azienda ( le fonti sono HR, CEO, Manager di vario livello):

– il segnale sembra chiaro: il livello complessivo non è di certo elevato (un terzo del possibile), è in calo rispetto al 2020, e soprattutto è inversamente elevato rispetto all’età. Confermando che sono le young generations a non riuscire a trovare senso e benessere nel lavoro. Di certo questa insoddisfazione è dovuta alla più alta aspettativa di armonia vita-lavoro: Boomers e Z erano dentro la logica della separazione, dunque misuravano la soddisfazione verso il lavoro sulla base di aspettative più concrete e limitate (remunerazione, carriera, successo). Riservandosi magari di riempirsi la vita nella sfera privata (oppure scegliendo di vivere per il lavoro, cosa frequente in questi cluster generazionali).

Terzo segnale (che rafforza il precedente): l’attrattività dell’azienda non è granché

Si conferma che il fascino dell’azienda, dunque non solo del “lavorare” ma anche di essere parte di questa dimensione esperienziale (la workplace, l’ambiente di lavoro) , perde terreno con il diminuire dell’età. Il che ritorna nella domanda sul senso di appartenenza:

Naturale quindi la reazione di “defilarsi” da una situazione che non mi soddisfa e in cui non mi identifico, ed ecco il segnale forte delle “grandi dimissioni”, che in questa rilevazione sottolinea essere particolarmente elevate nei millennials. Il che si spiega perché i Millennials hanno già un lavoro e quindi possono abbandonarlo, mentre nella GenZ si tratta di non accettare o non cercare un lavoro in azienda (ricordiamo chi che qui i manager intervistati parlano di chi sta già in Azienda)

Va detto che dati più recenti, inclusivi anche del rifiuto dopo il colloquio o subito dopo l’assunzione, riequilibrano il dato degli Z. E va detto che alcuni dati recenti sottolineano che il 41% di coloro che si sono dimissionati hanno dei ripensamenti, mentre d’altro canto cresce nei giovanissimi il numero dei NEET e di chi non cerca lavoro in una Azienda ma preferisce tentare il terzo settore oppure una microimpresa da start up o partita iva personale.

Il sentiment dei dipendenti
Una seconda parte della indagine è rivolta non più ai manager ma ai “candidati”, che si presentano ai colloqui di lavoro. E’ una originalità della indagine, molto apprezzabile, anche questa svolta con una fase qualitativa e una quantitativa. Abbiamo l’occasione di capire che senso danno ai segni/sintomi emersi.

Vediamo innanzitutto quale è per questi candidati (giovani, inmedia) il “senso del lavoro:

Sembra confermare quanto fin qui esposto, e potrebbe far pensare a giovani di molte pretese/aspettative verso il lavoro.
In realtà non pare sia così, perché alla specifica domanda su cosa cerchino dal lavoro danno una risposta molto equilibrata: vogliono un po’ di soldi, un po’ di stimoli, e migliorare le proprie competenze. Forse, rispetto alle generazioni adulte, cresce un po’ la voglia di stimolazione, ma il quadro è del tutto ragionevole, specialmente per un giovane.

Cosa mi aspetto dal lavoro?

Forse però la lettura del dato raccolto in questo caso risente delal assenza di due elementi che potrebbero alterarne il senso tutto sommato tranquillizzante:
Non è che il retropensiero dei più giovani è “dal lavoro cerco di prendere queste cose, che ora mi servono e mi fanno fare esperienza, e poi si vedrà, andrò a cercare altrove altri stimoli di crescita?”. Molti indizi di altre indagini sembrerebbero indicare la plausibilità di questo atteggiamento “opportunista” che non può piacere all’Azienda (che si aspetta di essere lei a dettare i tempi)
Non è che se chiedo a un giovane cosa si aspetta dal lavoro pensa solo al contratto e alla prestazione, mentre se gli chiedo cosa non gli piace nell’”ambiente di lavoro” risponde che non gli va il mondo in cui mi trattano, il non avere informazioni e feedback, il non essere ascoltato e così via? (come testimoniano altri dati)

La qualità del clima/cultura aziendale è decisiva

Il sospetto è del resto confermato da altri dati del report Randstad. Dalla fase qualitativa emergono infatti queste indicazioni sulla “etica del lavoro” (ovvero le regole dei rapporti persona-azienda):

Una avvertenza: i giovani per “meritocrazia” non intendono la capacità di essere migliori degli altri, ma che si aspettano che i loro meriti vengano riconosciuti (in sé stessi, a me come persona, non in confronto o competizione con gli altri). Non andrebbe utilizzato il termine “meritocrazia”, che nel vocabolario aziendale è un criterio di giudizio s chi vince una gara. Inoltre, vedete quanto qui pesa il bisogno di sentore attorno a sé ascolto e fiducia: insomma il bisogno di mentoring e tutoring, che però non deve limitare o invadere uno spazio autogestito di autonomia. Il sintomo è confermato dalla parte quantitativa dell’indagine, in cui la meritocrazia coincide con il “premiare i talenti”: dove “premiare” sta anche per “fare emergere, stimolare”, visto che ognuno di loro si ritiene un talento, non sa bene quale, e si aspetta che chi ha intorno al lavoro lo aiuti a identificarlo e farlo fiorire (thriving).

In coerenza con la lettura che propongo di questi dati (abbastanza affidabili nel metodo di raccolta, perciò preziosi) è la richiesta delle opportunità che le aziende devono offrire per essere interessanti a questi giovani:

Potremmo anche dire che nelal nostra prospettiva “pari opportunità” e “trasparenza/lealtà” rappresentano due facce delal stessa medaglia. Quindi i giovani si attendono dall’azienda un ambiente affidabile che mi dà (fa da tutor) opportunità (di conoscere i miei talenti e svilupparli), e mi lascia flessibilità nell’organizzare il mio modo di lavorare.
Un Challenge terribile per una cultura organizzativa che per due secoli partiva dall’assioma che deve essere chi cerca lavoro / il lavoratore a adattarsi alla organizzazione e alla sua visione delle cose, e non viceversa. Ma così va il mondo, e sarà bene che le aziende ne prendano atto e ne colgano le potenzialità molto positive, di cui riparleremo prossimamente.

Giovanni Siri